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DEI in Italia: come costruire una leadership inclusiva oltre la retorica

Kilpatrick Executive per una leadership inclusiva: DEI come strategia aziendale in Italia

DEI in Italia: come costruire una leadership inclusiva oltre la retorica

Negli ultimi anni, parole come inclusione, diversità ed equità sono entrate stabilmente nel vocabolario del mondo aziendale italiano. Le troviamo nei bilanci di sostenibilità, nei codici etici, nelle campagne employer branding e nei comunicati ufficiali. In apparenza, il panorama sembra progredire verso un’idea di impresa più aperta, rappresentativa e giusta. Ma dietro la superficie, quanto è cambiato davvero?

Nel 2025, parlare di DEI (Diversity, Equity & Inclusion) non è più un atto rivoluzionario: è diventato quasi scontato. La vera sfida oggi non è nominare l’inclusione, ma abitarla. Non si tratta di redigere una policy, ma di trasformare la cultura organizzativa. Le imprese che vogliono distinguersi devono andare oltre le dichiarazioni d’intenti, e tradurre i valori dichiarati in prassi quotidiane, in decisioni coerenti, in leadership consapevoli.

Questo richiede un cambio di paradigma. La DEI non può più essere confinata all’ambito delle risorse umane, né vissuta come un progetto parallelo al core business. Deve diventare una lente attraverso cui leggere strategie, valutare performance e immaginare il futuro dell’impresa.

Ma cosa significa davvero vivere l’inclusione nel contesto italiano? Dove siamo oggi, quali sono i rischi di approcci superficiali, e in che modo la leadership può fare la differenza?

In questo articolo esploriamo lo stato della DEI in Italia nel 2025, i limiti strutturali ancora presenti, e soprattutto il ruolo decisivo dell’executive search nel trasformare i valori in azioni concrete. Perché la vera inclusione comincia dalle persone che guidano.

DEI in Italia: tra buone intenzioni e realtà incompiute

Negli ultimi anni, sempre più aziende italiane hanno cominciato a parlare – e talvolta ad agire – in nome della DEI. Sono nati programmi per la parità di genere, iniziative per l’inclusione delle persone con disabilità, percorsi di sensibilizzazione alla multiculturalità e interventi sul benessere psicologico e intergenerazionale. In alcuni contesti, in particolare nei settori più internazionalizzati, si stanno muovendo i primi passi concreti verso la formazione dei leader su temi come l’unconscious bias, la leadership inclusiva e la gestione di team eterogenei.

Tuttavia, al di là delle dichiarazioni e dei progetti pilota, la fotografia attuale mostra ancora un Paese in ritardo strutturale su molti fronti:

  • La rappresentanza nei vertici aziendali è ancora fortemente squilibrata: le donne e i talenti di origine non italiana restano ampiamente sottorappresentati nei board e nei ruoli di leadership, soprattutto nel settore privato.
  • La misurazione dell’impatto DEI è debole o assente: spesso ci si affida a metriche qualitative, autoreferenziali, prive di indicatori oggettivi e confrontabili. Senza dati, è difficile valutare l’efficacia delle politiche adottate.
  • La spinta normativa è limitata, e i riferimenti legislativi spesso lasciano ampio margine di interpretazione. Anche la pressione reputazionale, rispetto a quanto avviene nei mercati anglosassoni o nordeuropei, è ancora contenuta.
  • Manca una cultura della responsabilità diffusa: in assenza di incentivi concreti o di vincoli stringenti, molte iniziative rischiano di rimanere a margine delle scelte strategiche e non integrarsi nei processi core dell’azienda.

Di fronte a questo scenario, il rischio concreto è quello di una DEI frammentata, portata avanti in modo episodico, senza una regia centrale e priva di connessione con le vere leve decisionali dell’organizzazione. In molte aziende, la diversity viene ancora affrontata come un tema di comunicazione o come un’iniziativa HR isolata, scollegata dalla governance, dalla pianificazione strategica e dai sistemi di performance management. Questo approccio parziale rischia non solo di essere inefficace, ma anche controproducente, alimentando scetticismo interno e mettendo in discussione la credibilità dell’azienda verso l’esterno.

Per trasformare la DEI in un motore autentico di innovazione, crescita e reputazione, non bastano le buone intenzioni. Serve un metodo strutturato, che definisca obiettivi chiari, strumenti di misurazione, responsabilità precise e un monitoraggio continuo dei risultati. Serve coerenza, affinché i messaggi rivolti all’esterno trovino riscontro nelle dinamiche interne, nelle pratiche quotidiane, nei percorsi di carriera e nelle scelte di leadership. E, soprattutto, serve una leadership consapevole e preparata, capace di assumere la DEI come parte integrante della visione aziendale e di guidare il cambiamento con autenticità.

Solo in questo modo la DEI potrà smettere di essere percepita come un progetto accessorio, un gesto reputazionale o un dovere morale, per diventare una leva strutturale e concreta di competitività, resilienza e valore nel lungo periodo. Perché un’organizzazione inclusiva non è solo più giusta: è anche più forte, più reattiva e meglio attrezzata per affrontare la complessità del mondo attuale.

Il rischio del diversity washing

Nel panorama attuale, molte aziende parlano di inclusione, diversità ed equità con grande enfasi. Tuttavia, quando la DEI resta confinata al piano della comunicazione, senza un reale riscontro nei comportamenti, nei processi decisionali e nelle strutture organizzative, perde di credibilità. È in questi casi che si manifesta il cosiddetto diversity washing: una forma di marketing valoriale che dichiara molto ma realizza poco.

Le aziende che cadono in questa trappola spesso si limitano a promuovere un’immagine inclusiva attraverso campagne pubblicitarie, post sui social o slogan istituzionali, mentre al loro interno continuano a riprodurre modelli organizzativi verticali, monoculturali, poco trasparenti e resistenti al cambiamento. Le politiche DEI, in questi contesti, non sono integrate nella governance né supportate da investimenti strutturali o indicatori misurabili.

Questo scollamento tra immagine e realtà è sempre più evidente ma, soprattutto, rischioso.

Le nuove generazioni di talenti, in particolare Millennials e Gen Z, non si lasciano più convincere da un employer branding patinato. Sono profondamente attenti alla coerenza tra ciò che un’azienda dichiara e ciò che pratica. Chiedono ambienti autentici, dove le differenze non siano solo tollerate, ma attivamente valorizzate. Dove esista spazio per il confronto, per la crescita, per la rappresentanza vera. E dove l’equità sia un principio operativo, non un’aspirazione generica.

In un contesto in cui l’identità del lavoro si intreccia sempre più con i valori personali, l’autenticità è diventata una leva competitiva centrale. Non solo per attrarre i migliori talenti, ma per trattenerli nel tempo e coinvolgerli in modo profondo. I leader del futuro scelgono aziende che offrono più di un ruolo: vogliono contribuire a un progetto coerente, in cui sentirsi parte attiva e riconosciuta.

Il diversity washing non è solo un errore di comunicazione. È un fallimento strategico, che può minare la reputazione, indebolire l’engagement interno e compromettere la capacità dell’organizzazione di innovare. Al contrario, la coerenza tra valori dichiarati e vissuti rappresenta oggi uno dei principali indicatori di credibilità, solidità e lungimiranza per qualsiasi impresa orientata al futuro.

Leadership inclusiva: il cuore del cambiamento

Un’organizzazione può investire risorse, promuovere policy DEI avanzate, sviluppare progetti dedicati e avviare iniziative di sensibilizzazione, ma senza una leadership consapevole, coerente e coinvolta, nessun cambiamento sarà duraturo o realmente trasformativo. L’inclusione, per diventare parte integrante del DNA aziendale, deve essere vissuta, incarnata e guidata da chi prende decisioni. In altre parole: deve partire dall’alto.

Una leadership inclusiva non si limita a “rappresentare la diversità” nei numeri, né si esaurisce nella composizione di un board più variegato. Il vero indicatore di inclusività è la cultura manageriale, ovvero il modo in cui il potere viene esercitato, condiviso e interpretato nella quotidianità.

Le competenze fondamentali della leadership inclusiva non sono tecnicismi, ma soft skill evolute e profondamente umane, che fanno la differenza nei contesti complessi di oggi:

  • Empatia e intelligenza emotiva, per comprendere esperienze diverse dalla propria, anticipare i bisogni del team e leggere ciò che non viene detto.
  • Ascolto attivo, per dare voce anche alle opinioni minoritarie, accogliere punti di vista divergenti e costruire decisioni più ricche e inclusive.
  • Coerenza tra parole e azioni, perché la fiducia si costruisce con l’esempio, non con le dichiarazioni.
  • Capacità di dialogo autentico, anche su temi scomodi o potenzialmente divisivi, sapendo trasformare il conflitto in occasione di apprendimento reciproco.

I leader inclusivi non temono la complessità: la abbracciano. Riconoscono che in un mondo in costante trasformazione, l’omogeneità è un rischio e la diversità è un vantaggio competitivo. Sono capaci di costruire contesti psicologicamente sicuri, in cui le persone si sentono libere di esprimersi, sbagliare, proporre, apprendere, senza il timore di essere giudicate o escluse.

Questi leader generano energia, fiducia e senso di appartenenza. Non delegano l’inclusione a un ufficio DEI, ma ne fanno uno stile di leadership quotidiano. Trasformano la cultura dall’interno, facilitando relazioni più autentiche, favorendo la collaborazione e facendo crescere organizzazioni più reattive, umane e innovative.

In un mondo in cui il capitale umano è la risorsa più strategica, la leadership inclusiva non è un’opzione etica: è una scelta di business consapevole, necessaria per affrontare il futuro con visione e solidità.

Il ruolo dell’executive search nella strategia DEI

In un momento storico in cui le organizzazioni sono chiamate a ridefinire le proprie fondamenta culturali, l’executive search non può più limitarsi a colmare un vuoto organizzativo: diventa uno strumento strategico, capace di influenzare in modo decisivo la leadership, la cultura interna e la direzione futura dell’impresa. La selezione di un leader, oggi, è un momento ad altissimo impatto sistemico, che contribuisce a definire i valori visibili (e invisibili) dell’organizzazione.

Il vero cambiamento si genera quando la ricerca di un profilo non si concentra solo sulle competenze tecniche e sul track record, ma si estende alla visione del candidato, alla sua capacità di ascolto, alla consapevolezza relazionale, al suo stile di leadership. In questo senso, il recruiting diventa un’opportunità per innestare nuovi linguaggi, modelli comportamentali e visioni inclusive all’interno del vertice aziendale.

La DEI non può più essere affrontata come un insieme di iniziative simboliche, temporanee o delegate unicamente alla funzione HR. È una leva trasversale, che riguarda il modo in cui si prende ogni decisione chiave: chi assume il potere decisionale, con quali criteri, con quale impatto sulla cultura aziendale. Richiede metodo, visione, commitment e coerenza strategica.

Le imprese che sapranno integrare la DEI nei processi decisionali, nei modelli di governance e nei criteri di selezione non solo dimostreranno una maggiore capacità di attrarre e trattenere i migliori talenti, ma saranno anche più preparate a innovare in modo efficace, rispondere con agilità ai cambiamenti del mercato e costruire relazioni solide con clienti, partner e comunità.

Non si tratta semplicemente di “variare i profili”, ma di costruire team eterogenei in grado di generare valore proprio grazie alla diversità di pensiero, di vissuti e di prospettive. Squadre che sappiano leggere la complessità, gestire conflitti in modo costruttivo, dialogare con stakeholder globali e agire con senso di responsabilità verso il contesto sociale e ambientale in cui operano.

L’inclusione, infatti, non è un fine in sé, né un adempimento reputazionale: è una condizione abilitante. È ciò che consente alle organizzazioni di essere più empatiche, più resilienti e più capaci di evolvere in un mondo in continua trasformazione.

Conclusione: La DEI non è un progetto HR, è una strategia di business

Nel contesto attuale, in cui le aziende operano in ecosistemi sempre più globali, interconnessi e attenti alla trasparenza, la Diversity, Equity & Inclusion ha smesso di essere una scelta opzionale. Non è un progetto da affidare esclusivamente alla funzione HR, né una leva da attivare in risposta a pressioni reputazionali. È, a tutti gli effetti, una strategia di business, capace di influenzare direttamente competitività, innovazione, sostenibilità e valore per gli stakeholder.

Le imprese che sapranno integrare la DEI nei processi decisionali, nei modelli organizzativi, nelle dinamiche di leadership e nella cultura operativa quotidiana saranno quelle in grado di navigare con maggiore agilità il cambiamento, attrarre e trattenere i migliori talenti, innovare in modo più efficace e costruire relazioni solide con clienti, partner e comunità.

L’inclusione non è un fine in sé, ma una condizione abilitante per generare organizzazioni più resilienti, empatiche e capaci di interpretare la complessità del mondo contemporaneo. È la base su cui si costruiscono aziende capaci di trasformarsi, apprendere, crescere e creare valore condiviso nel lungo periodo.

In questo percorso, Kilpatrick si propone come partner strategico di fiducia, accompagnando le organizzazioni non solo nell’identificazione di leader competenti, ma nella costruzione di visioni culturali credibili, solide e orientate al futuro. Il nostro obiettivo non è semplicemente supportare le aziende nel “fare DEI”, ma nell’essere davvero inclusive: attraverso processi di selezione consapevoli, advisory personalizzato e una profonda conoscenza dei contesti globali e locali in cui operano.

Perché la leadership inclusiva non è un’aspirazione: è una responsabilità. E anche una straordinaria opportunità per generare impatto reale.